IL PALAZZO DEL MONTE
Situato nel cuore del centro storico di Vicenza, in quella piazza dei Signori che da secoli incarna il simbolo stesso della vitalità cittadina - con le sue frenetiche attività di commercio, i mercati e il colorato andirivieni di abitanti e visitatori - il Palazzo del Monte di Pietà si sviluppa parallelamente alla celebre Basilica Palladiana dirimpetto, imponente e originale esempio di un’architettura ibrida a cavallo tra il Quindicesimo e il Diciassettesimo secolo. La prima pietra del complesso monumentale fu posta nel 1499, grazie alla solida condizione della casse dell’istituzione del Monte vicentino la quale, con lungimiranza, cinque anni addietro aveva stabilito, per mutui superiori ai 20 soldi, un interesse inferiore a quello degli altri Monti, pari al 5% annuo. Era necessario trovare nuova collocazione per il Monte, inizialmente ospitato nel Palazzo della Ragione (rinominato, successivamente all’intervento dell’architetto Andrea Palladio, Basilica Palladiana), a seguito del crollo, nel 1497, di alcune logge dello stesso palazzo. I preposti alla pia opera decisero di sviluppare l’edificio intorno all’attigua chiesa di San Vincenzo, che subì già da allora una prima operazione di restauro. Autore del progetto e costruttore, a oggi, restano ignoti.
Perpendicolare alla facciata sulla piazza, il voltatesta in Contrà Manin è certamente il più breve; più significativo il secondo voltatesta, in contrò del Monte, il quale esibisce l’ingresso principale dell’edificio, posto perciò lateralmente e non sulla facciata; entrambi si ricongiungono, dopo alcune decine di metri, con il corso Andrea Palladio, strada principale del centro città. Considerando volumetria (20.000 metri cubi con un prospetto alto fino a 16 metri e lungo 73) e valore formale delle diverse parti che lo compongono, il palazzo è uno dei complessi più significativi dell’antico centro di Vicenza.
ARCHITETTURA E SCULTURA
La facciata, composta da mezzanini lombardeschi, tipici del primo Rinascimento, sovrastati da piani sovrapposti in stile classico, conferisce alla struttura un senso di amabile austerità, bilanciata tra il respiro degli spazi nella parte inferiore e dalla pienezza dei due piani superiori, impreziositi dalle decorazioni affrescate dal pittore Domenico Bruschi, oggi quasi completamente perdute (e presenti, al tempo, anche nei voltatesta). Di particolare eleganza, l’ingresso, costruito dall’architetto Francesco Muttoni (responsabile anche dell’atrio e dell’alto e stretto cortile interno, in cui risaltano le due imponenti porte centrali in pietra dura), esempio di architettura tardo seicentesca caricato da una regalità che, ai giorni nostri, continua a togliere il fiato. Alzando lo sguardo sopra le elaborate inferriate (su disegno dello stesso Muttoni) verso i bassorilievi e i cartigli, si leggono le iscrizioni Mons Pietatis, Biblioteca Bertoliana (il palazzo fu la prima sede della Biblioteca Bertoliana, prima biblioteca pubblica in Veneto fuori Venezia) e, tra le due iscrizioni, una locuzione greca, “Psychēs iatreion”, traducibile come Ospedale dell'anima, rimando all’iscrizione presente, secondo alcune fonti storiche, all’ingresso della Biblioteca di Alessandria nel periodo ellenico. La ragione di questa scelta è duplice: da un lato la nobile missione di assistenza al cittadino con la quale nacque l’istituto, dall’altra la sacralità contenuta nella cultura che i libri della Bertoliana recavano con se.
Il complesso subì ulteriori maneggiamenti nei primi anni del Novecento - principalmente il consolidamento delle condizioni statiche e il restauro di alcuni elementi lapidei - e subito dopo la fine del secondo conflitto mondiale, per riparare i danni provocati dal devastante bombardamento del 18 marzo 1945 nel quale bruciarono i coperti, alcune decorazioni scultoree, la scala lignea del campanile e l’archivio.
Chiesa di San Vincenzo
Al centro (non perfetto) dell’ala ovest ed est del palazzo, preziosamente celata dietro le inferriate che si affacciano su Piazza dei Signori, è inserita la già citata Chiesa di San Vincenzo, gioiello nel gioiello di un palazzo che contiene così l’edificio sacro dedicato al patrono della città nonché uno degli ultimi luoghi di culto nel centro dove veniva ufficiata la celebrazione liturgica in latino secondo il Rito Romano Ordinario. Quella che vediamo oggi, è la testimonianza di numerosi interventi architettonici avvenuti tra il Quattordicesimo (si suppone il 1387, come data di inizio costruzione dell’edifico originario) e il Diciottesimo secolo, che rendono la chiesa un unicum nel suo genere, attualmente impiegato dalla Fondazione per le attività concertistiche e di divulgazione culturale.
Oltre seicento anni di storia
Tanti e tali gli interventi compiutivi, da mutarne perfino l’orientamento rispetto alla piazza, dal longitudinale della chiesa originale (che aveva le modeste dimensioni di una cappella), a perpendicolare, dopo la terza e ultima aggiunta datata 1703. Un importante intervento di revisione venne compiuto dal leoniceno Paolo Bonin tra il 1614 e 1617, fornendo alla chiesa un nuovo ingresso monumentale barocco affinché ben si sposasse con l’edifico che, nel frattempo, le si era sviluppato intorno. Ad aumentare l’evocatività del tutto, sulla sommità vennero poste cinque statue acroteriali dei santi protettori di Vicenza (Vincenzo, Leonzio, Carpoforo, Felice e Fortunato), opera dello scultore veneziano Giambattista Albanese (1573-1630) ma, soprattutto, l’altorilievo della “Pietà” ubicato nell’attico, sotto lo stemma della città; non una tradizionale rappresentazione del Cristo deposto e sostenuto dalla Vergine Maria: il Figlio dell’Uomo è preso in custodia da tre angeli, in una composizione carica di drammaticità e tensione dinamica.
Saliti i cinque gradini che portano all’atrio, subito, sulla destra, è presente una testimonianza sconosciuta ai più, riconducibile all’attività commerciale che si svolgeva, fin dall’antichità, nella piazza prominente: si tratta del marmoreo “campione di misure”, opera del lapicida Giovanni Antonio Grazioli, datato 1583; strumento imprescindibile per fornire riferimenti condivisibili riguardo le grandezze, il campione originariamente conteneva elementi di misura (il coppo, il quadrello, la pertica ecc.) decorati in foglia d’oro.
Guadagnato l’ingresso della chiesa, il corpo che si sviluppa sulla destra - la Cappella della Madonna della Mercede - è la zona originaria, alla quale sono andati sommandosi due ampliamenti che ne hanno rubato la centralità, nel 1500 e nei primi anni del ‘700; quest’ultimo fu compiuto dal Muttoni, allora già impegnato alla costruzione della sala per la biblioteca Bertoliana. Con la costituzione muttoniana del presbiterio, San Vincenzo acquisisce così l’aspetto con cui oggi la conosciamo. Tra le opere più suggestive ivi collocate va menzionato, al centro del lato sinistro, lo struggente gruppo scultoreo per l’altare della Pietà, a opera di Orazio Marinali (1643-1720), gioiello che combina spunti cinquecenteschi alla migliore drammaticità tipica del barocco.
Passate infine due imponenti colonne di ordine dorico, si giunge al presbiterio muttoniano, arricchito da un altare maggiore che fiorisce nella cornice rococò in marmo bianco e breccia violetta, attribuita allo scultore veneziano Bernardo Tabacco.
Difficilmente visibile, dalla piazza, il campanile alto 32 metri, la cui canna stimata intorno al Trecento è un chiaro esempio di tardo romanico, più volte restaurato, già a partire dal 1708.
IL PALAZZO DEL MONTE DI PIETÀ
UNA GRANDE STORIA, UN PRESENTE VIVO
Letto nella sua interezza, il palazzo del Monte di Pietà è una composizione architettonica formale al suo esterno e caratterizzata da spiccata funzionalità organizzativa negli spazi interni, nonostante la sua crescita irregolare, luogo vibrante di un’energia che unisce la sua Storia maiuscola a un presente vivo e pulsante sicché, unitamente alla sede della Fondazione e agli archivi, il palazzo ospita esercizi commerciali e imprenditoriali così come appartamenti privati, caratterizzati da ambienti immersi in un’atmosfera senza tempo, frutto anche di una meticolosa operazione di restauro globale del palazzo inaugurata nel 1981 e ancor oggi in atto.
Per metà della sua storia, il palazzo ha esibito una completa affrescatura esterna - la superficie più grande nell’ambito di un edificio Veneto - e tra le maggiori nella penisola. La sua prima veste fu realizzata dal pittore Giambattista Zelotti (1526-1578), tra i maggiori affrescatori dell’epoca, in un lasso di tempo contenuto tra il 1556 (anno di pagamento del primo acconto) e il 1563 (anno del saldo). I soggetti era principalmente scene dell’Antico Testamento, incentrate sul profeta Mosè e sulla fuga degli ebrei dall’Egitto, e motivi architettonici. Già nel 1630 però, l’opera è praticamente scomparsa, con sezioni in stato di avanzato degrado e altre cancellate dal tempo. Dopo due secoli di decadenza, si pone rimedio alla situazione con un nuovo incarico, affidato al perugino Domenico Bruschi (1840-1910) il quale concede, quasi settantenne, un’opera di piena maturità artistica, realizzata tra il 1907 e il 1909: egli abbandona il modus operandi di Zelotti, procedendo a una suddivisione in finti arazzi attraverso motivi ornamentali che sono forse, sotto un profilo pittorico, gli interventi più interessanti della commissione. Tornano anche le scene bibliche; oltre all’Antico Testamento si aggiungono, in contrà del Monte, due soggetti dal Nuovo Testamento (una Pietà e un’Addolorata) e una composizione coi beati Bernardino da Feltre e Marco da Montegallo, ai piedi di San Francesco d’Assisi. L’opera, se possibile, dura meno della precedente, con la beffa aggiuntiva, prima di svanire alla vista, di subire la “velatura” di alcune parti anatomiche femminili, giudicate troppo “voluttuose”.
DIPINTI E AFFRESCHI
Al suo interno, il palazzo, custodisce una serie di dipinti di grande impatto e inestimabile valore, tra i quali citeremo l’imponente olio su tela “Allegoria della carità” di Alessandro Maganza (1556-1632), incassato nell’antica volta della Sala dei Prestiti. In una parete nella saletta d’angolo con contrà del Monte, troviamo invece quattro dipinti a olio (“Nascita di Gesù”, “Cristo che appare a Maddalena in vestiti da ortolano”, “Annunciazione” e “Cristo Morto con Beata Vergine”) di Giambattista Maganza il giovane (1577-1617), vibranti di una spiritualità posata e crepuscolare. Oggi esposte al Museo Civico ma un tempo presenti nella sala dei Prestiti, altre due tele: una “Allegoria per Alvise Foscarini” di Francesco Maffei (1605-1660) e “Cristo deposto dalla croce”, attribuito a Leandro Dal Ponte (1557-1622) e originariamente esposto nella Camera detta degli Ori.
Un discorso a parte merita la sala del Capitolo, al primo piano, le cui vetrate affacciano sulla torre Bissara e la Basilica Palladiana; completamente affrescata da Alessandro Maganza (1556-1632) e Giulio Carpioni (1613-1678), l’ambiente unisce motivi sacri e profani in una dicotomia divertente e sorprendente allo stesso tempo. La sala, dove la Fraglia dei Marzari trattava i propri affari, è oggi una delle location della Fondazione più sorprendenti di tutte. In essa si respira sì il prestigio di un ambiente interamente adornato da un’Arte maiuscola ma anche ariosa, intrigante, il crocevia di un soffitto che ritrae santi (come gli evangelisti San Luca e San Matteo) e figure allegoriche di virtù (la Prudenza, la Temperanza ecc.) per poi azzardare scene dal brio smaliziato, dove fanno capolino personaggi della Commedia dell’Arte (un Pantalone colpevolmente fuggiasco, Arlecchino e Pulcinella tra un Bacco festante), personaggi vestiti (o travestiti) con gli abiti dell’epoca, e un’abbondante rappresentanza di animali di varia specie e di fantasia, alternando senza soluzione di continuità granchi e fauni, tritoni e cavalli, anatre e cavalli, in composizioni giocose e leggere dietro le quali si celano certamente criptiche allusioni, simbologia e i frizzi dell’artista.
E poi c’è la grande pala d’altare contenuta nella Chiesa di San Vincenzo, una “Madonna con bambino tra i santi Vincenzo e Luca Evangelista”, olio su tela dal pennello di Antonio Balestra (1666-1740) di cui stupisce l’atmosfera sfumata su una composizione fastosamente barocca, così che la grandiosità del soggetto si arricchisce della spiritualità sottesa dal tocco ispiratissimo dell’artista veronese.
Ma San Vincenzo non esaurisce il proprio valore nei soli episodi considerati di alta rilevanza artistica dagli storici dell’arte; l’occhio del visitatore pronto alla meraviglia non trascurerà di apprezzare le più recenti pitture murali di Giuseppe Giordani (1860-1888) nella cappella originaria, oltre a dipinti di cui si hanno poche informazioni, quali “La Madonna in trono con bambino” di pittore ignoto (databile attorno al Diciassettesimo secolo); quest’ultimo, sapientemente restaurato nel 2003, possiede la potenza senza tempo insita nella migliore arte sacra, un soggetto iconografico perfettamente inserito nella tradizione cinquecentesca la cui resa comunica, al contempo, profondità plastica e mancanza di profondità, un senso di sospensione dovuto forse agli occhi della Vergine, i quali incontrano immancabilmente quelli dell’osservatore.
Una menzione aggiuntiva merita la collezione degli argenti, patrimonio che rappresenta il consenso tributato al Monte di Pietà da parte delle istituzioni e delle famiglie nobili vicentine, le quali hanno donato, nel corso dei secoli, una imponente quantità di suppellettili, oggetti di uso comune e soprattutto ornamenti sacri in argento - questi ultimi destinati alla Chiesa di San Vincenzo e, dunque, al patrono della città - una testimonianza del più fine artigianato argentiero tanto diffuso già ai tempi della Serenissima. A partire da un inventario manoscritto del 1945 e con l’occasione dell’uscita del libro “Monte di Pietà - gli argenti” scritto da Alessandra Pranovi nel 2005, è stato redatto un nuovo minuzioso inventario, il quale fa risalire la quasi totalità della collezione a un arco temporale di due secoli, il Diciassettesimo e il Diciottesimo, individuando dove possibile datazione, provenienza e fabbricazione di questi squisiti oggetti d’arredo laico e sacro. Dall’analisi di un tale tesoro, si rievocano i ritratti della società del tempo, la sua profonda religiosità come anche le tradizioni che scandivano le vite dei vicentini dell’epoca.
Dalle rinomate botteghe venete provengono dunque imponenti candelieri, eleganti porta sapone, brocche, bacili, servizi da scrittoio: tutto risplende di una luce lunare che si attesta tra gli esempi più eclatanti della manifattura veneta, insieme a quelli dell’oro che, parallelamente e nello stesso periodo, stava costituendo i presupposti per la nascita di quello che diventerà il distretto orafo vicentino. Stupiscono, in particolare, le lampade pensili, grazie a un dettagliato lavorio che, in ogni elemento del corpo principale e fino alle catene di sospensione, parlano il linguaggio di una sacra eleganza, bilanciando i criteri di peso e leggerezza secondo un disegno morbido eppure austero. La legatura di uno dei più antichi messali impiegati nella Chiesa di San Vincenzo, è ulteriore manifestazione di arte sacra fatta risalire alla prima parte del XVIII secolo, un piccolo gioiello in legno, cuoio lavorato a martello e lamina in argento sbalzata, traforata, bulinata. Al centro della parte anteriore, incorniciata da quattro puntali, si distingue una placca raffigurante la Madonna con il Cristo deposto, realizzata attraverso un’incisione semplice ed efficace in cui il volto della Santa Madre è caratterizzato da un’espressione di placida accettazione per il sacrifico di quel figlio che, a suggello della divinità contenuta nella natura umana, si definì “Figlio dell’Uomo”.
A queste testimonianze di un passato dall’inestimabile valore, vanno ad aggiungersi infine gli oggetti contenuti nell’archivio della Fondazione; un susseguirsi eterogeneo tra sacro e profano, che alterna decine e decine di schede pegni vecchie di secoli, passando per paramenti ecclesiastici che sono il trionfo di una sartorialità artistica oggi impensabile, e fino a piccole teche contenenti misteriose reliquie di ardua catalogazione.
Il Palazzo del Monte si conferma essere uno degli edifici più sorprendenti dell’intera città, con una storia caratterizzata a sua volta da un’intricata rete di storie e fatti che tratteggiano, attraverso le meraviglie architettoniche e artistiche di cui è costituito, il ritratto di una Vicenza tutta da riscoprire.
LA COLLEZIONE DEGLI ARGENTI E...
Un'esposizione artistica alla Sala dei Pegni (foto di Marco Zorzanello)